domenica 20 agosto 2023

C'era una volta la sagria

Un tempo il frumento in tutta la regione della Calabria era chiamato sagria o segria, termine ancora utilizzato dalla popolazione più anziana. Secondo G. Rohlfs, come spiega nel suo libro "Lexicon Graecanicum Italiae Inferioris", il termine deriverebbe dal greco sekalia, il quale definirebbe un grano duro e scuro, accomunabile alla segale o alla spelta.

Prima d'introdurvi nel travagliato viaggio della sagria e dei cereali un tempo coltivati in Calabria ci tenevo a discutere di quelli coltivati in epoca romana, dove la prima testimonianza ci viene da Lucio Giunio Moderato Columella nel secondo libro di "De re rustica" o meglio tradotto come "L'arte dell'agricoltura". Qui Columella dice che si coltivavano tre tipi di frumento: il robus, il più pesante di tutti, che molto probabilmente si tratta di un grano duro (da robur che significa quercia); il siliginis, il migliore di tutti per la produzione del pane, il quale molto probabilmente era il siligo o siligine, un grano tenero mutico; infine abbiamo il trimenstre, o trimestrale, un grano molto apprezzato in passato poiché poteva essere seminato in primavera, per crescere e maturare in tre mesi, utile per le annate con inverni molto piovosi.
Successivamente anche Caio Plinio Secondo, meglio conosciuto come Plinio il Vecchio, cita questi cereali nel diciottesimo libro di "Naturalis historia", opera tradotta come "Storia Naturale", insieme alle varie qualità di grano coltivate nelle diverse provincie romane.

La prima, nonché la più antica testimonianza della sagria ci arriva dal 1571 da Gabriele Barrio, in "De antiquitate et situ Calabriae". Un compendio dei luoghi e su ciò che si trovava nella Calabria di allora. Il libro è stato successivamente nel 1737 tradotto da Tommaso Aceti in "Antichità e luoghi della Calabria"

In questa traduzione purtroppo, si è perso il lungo elenco di cereali coltivati nella Calabria del cinquecento. Infatti, nella versione originale figurano, il tritico, il siligo, il farro, la segale, l'irio o diminì, il triminì o turco, la sagria, il robus o rosia e la cingia. Ma anche la spelta o zea, l'orzo e il riso.
Successivamente la sagria viene citata nel 1601 da Girolamo Marafioti in "Croniche et antichità di Calabria", insieme a un grano bianco comune, la carosa (molto probabilmente si riferiva al carosello), il diminì, il triminì e quello germano (nome ancora oggi utilizzato dagli anziani calabresi per indicare la segale).
Mentre il lungo elenco di Barrio verrà citato nello stesso modo nel 1662 da Ferdinando Ughelli in "Italia Sacra, tomo nono" e nel 1691 da Giovanni Fiore in "Della Calabria Illustrata". 
Fino a giungere al 1792 dove Giuseppe Maria Galanti narra in "Giornale di viaggio in Calabria" che a Casalnuovo, l'odierna Cittanova (RC), si coltiva un grano bianco chiamato sagria, insieme a germano, avena ed orzo.

Nel 1879 ne "Il Propugnatore, periodico bimestrale di filosofia, di storia e di bibliografia", tomo dodicesimo, parte seconda. Viene cita la sagria insieme agli stessi cereali di Barrio, dove alcuni hanno dei nomi aggiuntivi come il trimino che viene chiamato tarcico, anche se molto probabilmente è dovuto ad un errore di traduzione e si voleva intendere turcico, mentre il robus viene tradotto come rovo.
Infine, l'ultima fonte storica di questo grano è del 1902 nella rivista numero 6 di settembre, "La Calabria - Rivista di letteratura popolare", diretta da Luigi Bruzzano. Dove vengono elencate le varietà di grano coltivate nella "Piana di Calabria" (Piana di Gioia Tauro), come il grano bianco, chiamato così per via della sua spiga bianca; il grano rosia o rosea o sagria, chiamato così perché la spiga è rossastra; il grano turco, chiamato così per le sue reste nere; il maiorca e il carosella.
Dopo di che queste varietà sono scomparse in meno di cinquant'anni, soppiantate da quelle più redditizie durante l'epoca fascista come il gentil rosso e successivamente da quelle brevettate, con l'incentivazione da parte della CEE sulla loro coltivazione in cambio di premi.

Le uniche notizie di questi grani oggi giorno sono del Timinì, coltivato a San Marco Argentano (CS) e recuperato Antonello Canonico. E del grano rosìa o russilla coltivato nel territorio di Laureana di Borrello (RC) e di San Pietro di Caridà (RC), come riportato "Il panorama Agricolo Calabrese", ARSAC, ottobre 2020.
Quello che ho detto fin ora non è per esaltare i "grani antichi", su cui molti tendono a lucrarci, ma una semplice protesta per la perdita della diversità delle varietà regionali.

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