Le prime testimonianze riguardo alla presenza in "Italia" di luppolo selvatico risalgono al 1836 ad opera dell'agronomo Alberto Linneo Tagliabue, dove cerca di spronare la gente a coltivarlo in modo da poter uscire dalla dipendenza dell'importarlo dall'estero.
Egli parla soltanto di quello lombardo, infatti, bisogna ricordare l'Italia non era ancora unita, e siamo nel Regno Lombardo-Veneto nato nel 1815 ceduto con il Congresso di Vienna dall'Impero Austro Ungarico, come regno dipendente da questo.
La domanda da porsi perché tanto interessa per il luppolo? Bisogna prima tornare un po' indietro, quando un negoziante di Milano e agronomo, decise di creare il primo luppoleto, o luppoliera come veniva chiamata all'epoca, in questo regno. Quest'uomo era Pietro Soresi, il quale nei vari viaggi in Europa aveva osservato le coltivazioni di luppolo in Baviera, Francia e Inghilterra. Così apprese le varie tecniche di coltivazione, decise di addomesticare quelle selvatiche presenti sul territorio e successivamente d'importare dalla Baviera duemila radici (rizomi), piantandoli in un appezzamento di sua proprietà a Trivulza (MI) [2].
Soresi spinto da motivi filantropici affidò a Tagliabue la stesura di un manuale sulla coltivazione e l'uso del luppolo traducendone uno francese.
In quel periodo molti si cimentarono nella produzione di birra, benché la penisola italiana aveva alle spalle una lunga storia vitivinicola, molti come oggi riconosceva nella birra un'ottima bevanda estiva. Tra questi vi fu Gaetano Pasqui che nel 1835, avviò a Forlì il primo birrificio romagnolo. Anche qui bisogna vedere il contesto storico-geografico, la Romagna, insieme alle Marche, l'Umbria, il Lazio e parte della Campania, facevano parte dello stato pontificio. Essa dopo la seconda guerra d'indipendenza nel 1860 si unirà al Regno di Sardegna.
Comunque il birrificio dell'agronomo Pasqui ebbe delle difficoltà, poiché il luppolo essenziale nella preparazione della birra, veniva importato dalla Baviere o a volte dagli Stati Uniti, a prezzi piuttosto alti per l'epoca. Ciò spinse Pasqui a valutare il luppolo che cresceva selvatico lungo il fiume Rabbi, e nel 1847 dopo l'acquisto di un terreno alluvionale, insieme al fratello iniziò a selezionare e coltivare le prime piantine di luppolo. Permettendo nel 1850 la produzione della prima birra con luppolo italiano [3].
Parallelamente anche nel Granducato di Toscana, vi furono persone interessate alla coltivazione di luppolo. Nel 1838 Gaetano Baroni cita in una delle sue seduta: Raffaello Sparpettini, piore di S. Maria a Castiglioni in Val di Pesa, a sud di Firenze, introdusse in dei terreni poco adatti alla coltivazione della vite, pioppi cipressini come sostegno per la crescita del luppolo; e il marchese Ridolfi, il quale appassionato di agraria decise di cimentarsi nella coltivazione di questa pianta, anziché far crescere il luppolo in verticale come si faceva allora in Germania e Inghilterra, decise di farlo crescere in orizzontale sul del fil di ferro, come si fa con la vite. Ridolfi racconta in una sua lettera indirizzata a Baroni che la luppoliera prospera e che da essa ha avuto dei buoni raccolti, oltre al fatto che con questa tecnica di coltura risulta più facile raccogliere i "frutti" [1].
Dopo l'Unità d'Italia, nel 1876 a Marano sul Panaro (MO) il Marchese Montecuccoli avviò anche lui una coltivazione di luppolo, per la produzione della propria birra. Ma il Marchese non si interessò ai luppoli italiani, bisogna dire che molti storcevano il naso al fatto di utilizzare un'erba selvatica, benché tutte la piante coltivate dall'uomo sono state addomesticate da quelle selvatiche. Infatti, egli utilizzò piante provenienti dalla Boemia e dalla Stiria [3], foto sotto regioni in rosa.
Bisogna anche dire che il Marchese oltre ai possedimenti modenesi, vi erano altri austrici. Dopo di lui molti altri lo emularono, e nel 1908 il Conte Faina nei pressi di Orvieto (TR), 1914 i F.lli Luciani nei pressi di Feltre (BL), 1927 il Comm. Moretti a Piegari (PG) e 1959 l'Ing. Dandoni nel Bresciano. Da qui in poi ogni birrificio aveva il suo luppoleto [3].
Mentre dal 1984 al 1989 con il finanziamento del Ministero dell'Agricolture e dell'Assobirre, furono installati cinque campi sperimentali (Rovigo, Anzola, Osimo, Battipaglia e Palmanova) per valutare la risposta delle colture di luppolo alle diverse condizioni pedoclimatiche [3].
Arrivando al 2014 con Italian Hops Company a Modena, la prima azienda italiana impegnata nella produzione e coltivazione di luppolo, soprattutto quello italiano. Appunto nel 2011 grazie alla collaborazione con il comune di Marano sul Panaro (MO) e con l'Università degli studi di Parma, è stata avviato un programma di ricerca di luppolo autoctono lungo le rive del fiume Panaro [4].
Bibliografia
[1] Baroni, G.; Sulla coltivazione del Luppolo. Memoria letta dal sig. Gaetano Baroni Socio ordinario, nella seduta del 10 Giugno 1838; Continuazione degli Atti dell'I e R. Accademia economico-agraria dei Georgofili di Firenze, Volume XVI, Firenze, 1838
[2] Payen, Chevallier e Chappellet, Trattato sulla coltivazione e sugli usi del luppolo, Milano, Pier Giovanni Silvestrini, 1836.
[3] Rigoni Marta, Confronto tra varietà di luppolo da birra (Humulus Lupulus L.) allevate in ambiente friulano, Dipartimento di scienze agraria ed ambientali, Università degli Studi di Udine, A.A. 2014/2015.
[4] https://www.italianhopscompany.com/
[Fig. 1 e 2] https://www.davidrumsey.com/
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